Dialoghi Comunitari Democratici

Dialoghi Comunitari Democratici

I Dialoghi Comunitari Democratici si configurano come occasioni di confronto, a cadenza periodica, tra esperienze nazionali e internazionali di comunità terapeutiche per adulti e per minori, servizi di salute mentale, ecc. sulle pratiche di cura delle persone con sofferenza mentale.

Protagonisti dei dialoghi sono le persone che “abitano” tali contesti (utenti, operatori, familiari). Essi, in uno scambio democratico e solidale, affrontano e raccontano la loro esperienza su temi proposti e sulla vita di comunità per contribuire alla diffusione delle prassi, della cultura e dei valori della democrazia e della dialogicità

Format: 1 ora di dialogo comunitario democratico e 30 minuti per interventi liberi e dialogici dei partecipanti.

La partecipazione all’evento è gratuita.

Per collegarsi è sufficiente scaricare sul pc o smartphone la piattaforma Cisco Webex (gratuita), cliccare sul link ed inserire la password.

I° INCONTRO

Quando

giovedì 11 giugno alle 18.00.

Facilitatori

Raffaele Barone e Angelita Volpe

Comunità in dialogo

Gnosis Marino (RM) – Santo Pietro Caltagirone (CT) – 

Lahuen Orvieto (TR)

Come partecipare

Utilizza il link per accedere alla piattaforma:

https://indtc.my.webex.com/indtc.my-it/j.php?MTID=me70a780847c73b2cd300555ad20c8828

Password virtual room: dialogo

*eventualmente utilizza questo numero riunione 952 259 546

Comunità in dialogo

Tematiche I° incontro del 11 giugno:

  • Come la CT esercita i valori e i principi democratici?
  • Come viene sostenuta la partecipazione e la responsabilità personale dei suoi membri?
  • Come viene favorito l’empowerment ed il recovery degli utenti?
  • Vengono svolti gruppi? Quali?
  • Vengono coinvolte le famiglie degli utenti nella vita della comunità? Come?

  • Come vengono prese le decisioni riguardanti la vita della comunità?

  • Sono attivi progetti di inserimento lavorativo per gli utenti?

  • Come la comunità terapeutica è collegata alla comunità locale?

Ambienti abilitanti che curano e comunità locali inclusive

Ambienti abilitanti che curano e comunità locali inclusive

Quando ci riferiamo ad un ambito territoriale politicamente o culturalmente delimitato, come una città, un quartiere, o un qualsiasi altro contesto ambientale di convivenza socio-politica, il concetto di Comunità Locale ci aiuta ad identificare lo spazio mentale e relazionale in cui andare a valutare la qualità ed il livello di salute mentale che lo caratterizzano.

La Comunità Locale rappresenta infatti il contesto relazionale ed il campo mentale su cui intervenire con pratiche di sviluppo sociale, di partecipazione politica, di benessere relazionale, di costruzione, di significato e co-visione, attraverso le quali garantire la qualità della salute mentale di tutti i suoi membri e delle reti sociali che li attraversano. Tali pratiche possono quindi essere considerate come veri e propri interventi di psicoterapia di comunità, così intese perché migliorano la salute mentale di comunità attraverso l’azione di servizi professionali community focused.

Ai due estremi oggi ci sono due tipologie di psichiatria.

L’approccio dominante attuale in ambito sanitario, sia a livello nazionale che internazionale, è quello biomedico e burocratico, tendente ad una logica prestazionale e parcellizzante piuttosto che comunitaria e capace di considerare la persona nella complessità della propria intersoggettività e dei propri bisogni di cura. Essa ha come capisaldi il medico, la diagnosi, la prescrizione farmacologica o comportamentale e il ricovero sia durante la fase acuta che durante la lunga fase di assistenza residenziale. Questo è il modello che nella maggior parte dei casi viene adottato dalle Università in medicina ed in psichiatria.

Questo tipo di psichiatria è potentissima perché tende a semplificare la complessità del nostro lavoro e nasconde tutta una serie di interessi politici, culturali ed economici che passano inosservati. Ci riferiamo agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e delle residenze psichiatriche private.

Oggi questa psichiatria neo-istituzionale ha determinato un numero di “ricoverati” nelle residenze uguale e forse maggiore rispetto a quando erano ancora in funzione gli ospedali psichiatrici. Certamente queste strutture sono più moderne, pulite e sicuramente anche più funzionali, ma sono sempre luoghi dove le persone stentano a sviluppare tutte le loro potenzialità. Potremmo riprendere il concetto di Yunus, inventore del micro-credito, il quale sostiene che se un seme viene coltivato in un vaso alla fine diverrà un bonsai; tuttavia se viene coltivato in un terreno libero e fertile diverrà un albero.

Questo tipo di psichiatria presente allo stato attuale e in passato, con tutta probabilità sarà ancora presente in futuro. È ipotizzabile, e in parte si sta già verificando, che in contemporanea a questo tipo di psichiatria se ne stia sviluppando un tipo diverso che noi chiamiamo salute mentale di comunità e ambienti abilitanti.A livello locale è presumibile una convivenza tra le due forme di psichiatria.

La nostra esperienza e riflessione scientifica e culturale ci ha portato oggi a concepire un Servizio di Salute Mentale democratico e dialogico, ispirato ad un codice etico e costituito dai valori di verità, compassione, uguaglianza, libertà, coraggio e responsabilità, ossia le basi delle moderne istituzioni scientifiche e democratiche. I codici etici laici sono un sistema di valori a cui tendere piuttosto che una realtà data per certa.

Democrazia e Salute Mentale sono due beni pregressi e indivisibili. Ci si accorge della loro importanza quando ne siamo privati, quando si perdono o sono a rischio.

Iniziamo riflettendo sulla democrazia…

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Il GPMF e l’Open Dialogue: strumenti di una psicoterapia di comunità

Il GPMF e l’Open Dialogue: strumenti di una psicoterapia di comunità

Riassunto 

Gli autori in questo articolo propongono una riflessione sul rapporto tra il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) ed altri strumenti clinici e dispositivi terapeutici, quali l’Open Dialogue, la Comunità Terapeutica Democratica e le azioni di inclusione sociale e lavorativa, all’interno di un Servizio di Salute Mentale fondato su un’ottica di Psicoterapia di Comunità a sostegno della Recovery delle persone con patologia psichiatrica grave.

Il GPMF e l’Open Dialogue, lavorando sulla relazione nel “qui ed ora”, sulla dimensione emotiva, sulla partecipazione, pongono al centro dell’intervento la persona sofferente, la famiglia, gli operatori, contribuendo a valorizzare e sviluppare in modo significativo le loro risorse. Ciò determina un cambiamento nell’individuo, nella famiglia e nel gruppo di lavoro e una trasformazione nella cultura del Servizio di Salute Mentale in senso democratico, e della comunità locale.

Il Servizio diventa esso stesso una Comunità Terapeutica Democratica, aperta al dialogo, alla relazione, per promuovere la salute mentale come bene comune.Parole chiave: gruppoanalisi, Psicoanalisi Multifamiliare, Open Dialogue, psicoterapia di comunità, recovery, salute mentale di comunità.

 

Introduzione 

Le riflessioni che argomentiamo in questo articolo nascono dall’esperienza che si sta sviluppando nel Servizio di Salute Mentale di Caltagirone-Palagonia. Riteniamo utile una premessa relativa al territorio cui ci riferiamo, che permetta di contestualizzare le riflessioni inserendole nel contesto territoriale, politico e sociale nel quale hanno avuto origine.

Il Servizio di Salute Mentale di Caltagirone-Palagonia insiste sul territorio siciliano, nel Comprensorio Calatino Sud Simeto, il quale accoglie una popolazione di circa 144.000 abitanti distribuiti in 15 Comuni, la cui economia è prevalentemente caratterizzata da agricoltura, artigianato, servizi e turismo e dove sono presenti due Distretti Socio Sanitari e due Piani di Zona.

Il modulo dipartimentale di Caltagirone-Palagonia è composto da due Centri di Salute Mentale, 10 ambulatori territoriali con équipe multidisciplinare, due Centri Diurni, un SPDC, una Comunità Terapeutica Pubblica, una REMS, un Centro per la psicoterapia familiare e di comunità e per l’inclusione socio-lavorativa (SILS), un Ser.T, un Servizio di Neuropsichiatria Infantile.

Il Comprensorio è un territorio dove storicamente si sono sviluppate pratiche innovative nel campo della Salute Mentale e di Comunità, fondate su un costante lavorio di integrazione tra i Servizi di Salute Mentale, gli Enti Locali, la Rete delle Associazioni e la Rete del Privato Sociale, la Rete delle Associazioni dei familiari e utenti connesse con istituzioni scientifico-professionali note a livello nazionale e internazionale. Il Servizio di Salute Mentale ha attivato una collaborazione con l’Università di Catania per definire protocolli di ricerca sui GPMF, sull’IPS, sul Recovery.

 

I GPMF e l’Open Dialogue in un modello di DSM integrato e democratico

L’ipotesi che vogliamo sostenere è che il GPMF possa estrinsecare ancor più la propria valenza terapeutica se integrato con altri dispositivi tra i quali primariamente l’Open Dialogue, il modello IPS di supporto individuale all’impiego, la Comunità Terapeutica Democratica, in un DSM orientato al Recovery e ad un’ottica di Psicoterapia di Comunità.

I principi fondativi che animano tali dispositivi terapeutici hanno tra loro, come vedremo di seguito, importanti punti di contatto che li rendono significativamente compatibili e complementari nel sostenere i processi di cura delle persone con sofferenza psichica e nel favorire lo sviluppo di Servizi di Salute Mentale democratici…

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Democrazia e Dialogicità per il Benessere Mentale di Comunità. Una proposta di integrazione tra approcci complementari.

Democrazia e Dialogicità per il Benessere Mentale di Comunità. Una proposta di integrazione tra approcci complementari.

Riassunto 

In questo articolo gli autori vogliono evidenziare la intrinseca relazione tra i concetti di democrazia (nella sua accezione culturale, valoriale e pratica) e di salute mentale, nonché la loro relazione con i concetti di dignità, diritti, partecipazione, felicità. 

Gli autori, inoltre, presentano una proposta di integrazione tra quattro approcci terapeutici complementari tra loro nei principi cui si ispirano, e nei quali i valori su citati trovano una efficace declinazione. 

Tale proposta, nella attuale fase storica di crisi dei Servizi, sembra la più utile a rilanciare i valori innovativi portati avanti con determinazione da Basaglia, e rappresentare un modo concreto di dare risposte ai bisogni di cura e di benessere dei cittadini.

 

Introduzione 

Democrazia e Salute Mentale sono due beni pregressi e indivisibili. Ci si accorge della loro importanza quando ne siamo privati, quando si perdono o sono a rischio. Con il concetto di democrazia intendiamo una modalità di attuare i processi decisionali fondata sulla condivisione del potere, l’esercizio dei diritti, la giustizia sociale e le sue regole, la libertà di espressione e di comunicazione, la partecipazione, il conflitto finalizzato a trovare soluzioni, la condivisione delle decisioni sulla comunità di vita, la pratica del confronto con l’altro. 

In particolare vogliamo sottolineare quest’ultimo concetto, in quanto si fonda su un principio basilare che è la capacità di ascolto, inteso come un dialogo aperto e continuo, fondato sulla consapevolezza della irraggiungibilità dell’“altro”, che è in continuo divenire. 

Allo stesso modo intendiamo il concetto di democrazia, come un valore delle relazioni sociali in continua trasformazione, e mai definito in maniera esaustiva. Inoltre riteniamo che non possa esistere un concetto di reale democrazia senza comunità così come non può esistere una comunità effettiva e tangibile senza democrazia. Essa, nella nostra accezione, può riguardare qualsiasi comunità di persone: la comunità locale, le istituzioni, le comunità terapeutiche, ecc. 

Delle molteplici forme di democrazia noi considereremo, per la nostra riflessione, la democrazia partecipativa che comprende lo sviluppo di tutti gli strumenti utili a fornire informazioni e a favorire e stimolare la collaborazione tra i cittadini e le istituzioni di una comunità locale. 

Essa è intrinsecamente collegata ai diritti di cittadinanza per tutti i membri di una comunità, ossia l’insieme dei diritti civili, politici e sociali: il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, alla solidarietà sociale, all’assistenza sanitaria, alle pari opportunità di lavoro e di istruzione, alla casa; il diritto di avere potere decisionale sul proprio corpo, sulla propria salute e sulle cure. Il diritto di esercitare i diritti. 

La democrazia partecipativa, così intesa, ci riconnette alle nostre radici antropologiche e culturali, ereditate dalla antica Grecia: in particolare alla Pòlis, come città e forma elettiva di governo politico, e alla Agorà ossia la piazza, luogo di incontro e di scambio nel cuore della Pòlis, dove venivano anticamente prese in modo collettivo le decisioni relative ad essa. La Grecia è stata storicamente la culla della democrazia, della partecipazione e del valore riconosciuto al dià-logos, ossia al confronto verbale che attraversa due persone come strumento per esprimere sentimenti e per discutere idee. 

Gli ordinamenti della democrazia tendono a garantire un altro valore essenziale per l’uomo: la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di coscienza. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne Costituzioni e sancita, per esempio, nell’ art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. 

Essa rimanda anche al valore della dignità come valore intrinseco, status ontologico dell’uomo. «È un sentimento che è chiaramente collegato al riconoscimento di essere prezioso per sé e per il gruppo sociale a cui si appartiene e che si condivide. Sentire di farne parte e di essere inclusi. Etimologicamente è: “qualità di degno” dal latino dignitas che si traduce come “prezioso” e si riferisce al valore intrinseco dell’essere umano in quanto essere razionale, dotato di libertà e potere creativo; perché le persone possono modellare e migliorare la propria vita mediante l’assunzione di decisioni e l’esercizio delle loro libertà» (Palleiro, 2015). 

La tutela e la promozione della dignità, insieme agli altri valori sopra citati, è oggi più che mai attuale e necessaria trasversalmente per tutti i cittadini di una comunità. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art.1, si sottolinea che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”.  Anche la Costituzione Italiana fa esplicito riferimento alla dignità negli articoli 3, 36, 41 ed in particolare nel 32. 

I concetti su esposti fondano ciò che contribuisce a garantire il benessere mentale di tutte le persone di ogni comunità, territorio o nazione. 

Per ciò che attiene nello specifico alle persone con sofferenza psichica, possiamo fare riferimento anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2006 e resa esecutiva in Italia nel 2009. Attraverso i suoi 50 articoli, la convenzione indica la strada da percorrere per garantire i diritti di eguaglianza e di inclusione sociale di tutti i cittadini con disabilità, per tutelarne la dignità. 

In particolare l’art. 3 sancisce, tra gli altri principi: a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone; b) La non-discriminazione; c) Il rispetto per la differenza e l’accetta-zione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; d) La parità di opportunità; e) Il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità e il rispetto per il diritto dei bambini con disabilità a preservare la propria identità. 

Inoltre l’art. 19 sottolinea, per le persone con disabilità, il diritto ad una vita autonoma e alla piena inclusione nella società, il diritto di scegliere il proprio luogo di residenza, di essere inclusi nel libero mercato del lavoro, il diritto all’istruzione, di prendere parte alla vita della comunità in piena integrazione con essa. Ci domandiamo se oggi le persone affette da patologia psichiatrica vedano sempre riconosciuti tali diritti, o se siano nelle condizioni di esercitarli. 

Ci domandiamo anche se i Servizi di Salute Mentale, nella accezione più ampia del termine, siano ad oggi organizzati rispettando i principi generali della cultura democratica. La risposta a tali quesiti è tendenzialmente negativa. L’approccio dominante attualmente in ambito sanitario a livello nazionale, e internazionale, è quello biomedico e burocratico, tendente ad una logica prestazionale e parcellizzante piuttosto che comunitaria e capace di considerare la persona nella complessità della propria inter-soggettività e dei propri bisogni di cura. 

La risultante è che spesso i Servizi sono organizzati sui bisogni identitari dei professionisti piuttosto che su quelli di cura degli utenti e delle famiglie. 

Solitamente gli utenti ed i loro familiari sono costretti ad adattarsi a rigidi standard prestazionali delle varie istituzioni (SPDC, CSM, Centri diurni, ambulatori, Strutture residenziali, ecc.), spesso ricevendo cure farmacologiche non accompagnate da sostegno psicologico continuativo e/o da un vero progetto terapeutico co-costruito e compartecipato. Difficilmente l’utente ha, al di là della forma, libertà sostanziale di scegliere quali cure effettuare, tra le tante opportunità possibili, e dove. 

In questo quadro generale si distinguono, tuttavia, alcune eccezioni che costituiscono un possibile modello di buone prassi nel campo della Salute mentale. In questi anni, nella nostra pratica clinica centrata sui gruppi, sulla psicoterapia di comunità, sulla psicoanalisi sociale, svolta in un contesto complesso e a volte difficile, abbiamo cercato ed incontrato colleghi di diverse parti del mondo, affini per stile di lavoro, per cultura e condivisione della pratica clinica e per visione politico-sociale. 

Ci riferiamo ad approcci nei quali i principi della democraticità ed il rispetto dei diritti e della dignità delle persone con sofferenza psichica e delle loro famiglie vengono perseguiti e praticati, essendo considerati parte essenziale dello stile di lavoro degli operatori della salute mentale. 

Essi sono il Gruppo Multifamiliare (GPMF), l’Open Dialogue (OD), la Comunità Terapeutica Democratica (CTD), l’Inclusione Socio-lavorativa

I principi fondativi che animano tali dispositivi terapeutici hanno tra loro, come vedremo di seguito, importanti punti di contatto che li rendono significativamente compatibili e complementari nel sostenere i processi di cura delle persone con sofferenza psichica e nel favorire lo sviluppo di Servizi di Salute Mentale democratici, fondati sui principi della partecipazione ai processi decisionali, della co-costruzione condivisa delle buone prassi, della solidarietà, dell’empowerment e del benessere di tutti i soggetti che li attraversano: utenti, familiari, operatori, cittadini della comunità locale…..

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Residenzialità terapeutiche a bassa protezione: un’opportunità di intervento “leggero” in tempo di crisi?

Residenzialità terapeutiche a bassa protezione: un’opportunità di intervento “leggero” in tempo di crisi?

Sempre più spesso è possibile rilevare, nell’ambito delle comunità terapeutiche per pazienti psichiatrici, una necessaria e naturale e tendenza a dotarsi  di appendici e costole, “istituzioni leggere” per così dire, al fine di graduare la dimissione dei loro ospiti. Essendo un fenomeno attuale e sempre più diffuso credo sia utile indagarne la natura, soprattutto perché esso mi sembra possa rappresentare un tentativo alquanto valido di venire incontro  ad alcuni bisogni degli ospiti e quindi  di fatto  può costituire una delle possibili evoluzioni del modello della comunità terapeutica tradizionale.

A questo proposito, dopo una breve descrizione dei vantaggi di queste strutture per la fase di dimissione degli ospiti, vorrei indagare altre possibili  potenzialità e applicazioni a prescindere da quello specifico utilizzo, poiché esse potrebbero costituire una valida alternativa a interventi impropri sia dal punto di vista clinico che  economico: circostanza quest’ultima, che non può essere trascurata nell’attuale momento storico caratterizzato da forti criticità e difficile sostenibilità di molti progetti in psichiatria.

In generale credo che la nascita di queste “istituzioni leggere”, definite spesso come Unita di Fase Avanzata, Unità di reinserimento etc,  sia conseguente ad una maggiore attenzione etica e professionale a quel delicato   momento del percorso terapeutico dell’ospite che è la dimissione. Le dimissioni infatti costituiscono il punto di repère, il momento  conclusivo e decisivo sul quale si giocano le  sorti di tutto il percorso terapeutico : trascurarne l’importanza vorrebbe dire mettere a rischio l’esito  del trattamento e tutte le risorse economiche ( dell’istituzione inviante) professionali (dell’equipe curante)ed emotive (del paziente e della sua famiglia) investite. Dal punto di vista clinico, queste istituzioni consentono un graduale scioglimento ed elaborazione( presumibile) della relazione terapeutica instauratasi tra il paziente e l’equipe tramite un allentamento dei nessi emotivi e transferali e una graduale sostituzione della realtà sociale all’artificio terapeutico dell’equipe curante.

Il graduale investimento che l’ospite fa del mondo sociale , tramite l’assunzione di un maggiore carico di responsabilità degli aspetti concreti della propria vita (dalla spesa, alla preparazione dei pasti, ed in generare alla autogestione quasi completa dei tempi di vita e del denaro) e la riduzione parallela dell’assistenza terapeutica da parte dell’equipe curante , costituiscono una sorta di messa alla prova, una specie  di paracadute prima dell’uscita , che consente ai curanti, spesso per la prima volta, di valutare l’effettività degli interventi prestati, il loro esito e la loro validità. Infatti quale valutazione più concreta può esserci , per i pazienti psichiatrici, del loro modo di relazionarsi alla realtà?

Queste  strutture consentono inoltre di valutare la validità del trattamento anche nei termini del rapporto costo- beneficio dell’intervento: l’evidenza dei risultati ottenuti trova verifica nel minore carico assistenziale ed economico prestato (questi interventi sono infatti meno costosi) , nella sua graduale diminuzione a volte nella sua auspicabile estinzione. Il modello di dimissione della comunità Passaggi (dove io opero)  prevede ad esempio la programmazione successiva al Progetto di Fase Avanzata, di appartamenti gradualmente  sempre meno assistiti, fino a residenzialità interamente autonome a totale carico degli utenti ( con un totale annullamento dei costi sociali dell’intervento).

La continuità terapeutica è garantita in questi casi da visite psichiatriche quindicinali o mensili  per la verifica del solo trattamento farmacologico, ove esso sussista, ed in casi eccezionali di emergenza , dal ripristino del rapporto domiciliare con un operatore. Ma la garanzia che il passaggio in queste strutture leggere costituisca un effettivo miglioramento delle condizioni dell’ospite e del suo rapporto con la realtà è costituito dalla verifica della sua capacità  di investire in percorsi formativi e lavorativi.  La formazione professionale è spesso iniziata già durante il percorso in comunità e presiede ad ogni ipotesi di dimissione ragionata, mentre la messa alla prova lavorativa avviene comprensibilmente,e nella maggior parte dei casi, durante o dopo la dimissione vera e propria dal progetto terapeutico della comunità.

Esiste infatti una naturale incompatibilità dell’investimento nella cura intensiva nel gruppo comunità con l’investimento lavorativo a causa  di una naturale limitatezza delle risorse emotive e cognitive di ogni essere umano che si trova in una situazione di difficoltà . Al  graduale disinvestimento dei setting terapeutici può così conseguire un graduale investimento del mondo sociale e lavorativo: alla graduale riduzione degli elementi protettivi della comunità può corrispondere  una relativa e graduale assunzione del rischio dell’apertura al mondo sociale, possibile anche tramite un migliore gestione dell’ansia.

Naturalmente in questo percorso è in opera un importante cambiamento della dimensione identitaria dell’ospite che deve essere in grado, senza misconoscere le problematicità che ancora lo attraversano ( non esiste in psichiatria restitutio ad integrum , ma ottimisticamente guarigione sociale) di gestire gli aspetti residuali della sua patologia e renderli compatibili con la sua nuova dimensione identitaria e sociale.

Naturalmente in questo percorso verso il reinserimento nella ricchezza del mondo sociale ( a cui egli può attingere spesso pienamente per la prima volta dopo anni) egli non sarà solo ma accompagnato da operatori che oltre ad avere competenza della sua realtà psichica devono dar conto della complessità delle reti sociali con le quali il paziente entrerà in contatto , degli intricati processi di inclusione sociale e lavorativa, dei vincoli normativi e amministrativi , della gestione dei fattori di rischio. A questo riguardo bisognerà essere consapevoli dei limiti della propria comprensione di questi complessi processi sociali.

A  questo riguardo scrive L.Maguire:

Molti terapeuti e operatori della salute mentale sono consapevoli della importanza delle reti sociali e cercano di valorizzarle (in particolare gli operatori che lavorano in una prospettiva psicosociale o quanti si rifanno all “psicologia dell’Io”, alla terapia familiare o ad altre forme di terapie di gruppo). Nonostante questo , poco si sa di come sia possibile utilizzare e “manipolare”le reti per fini specifici di terapia. (pag 59)

Vorrei ora prendere in considerazione la possibilità che questo tipo di intervento possa essere utilizzato anche da persone che non necessariamente si trovano nella condizione di dover essere dimesse da una comunità, ma attraversano una condizione clinica più a meno analoga a quella di un ospite in fase di dimissione. In altri termini persone che pur avendo raggiunto ( o non avendo mai perduto) una certa autonomia si trovano in una situazione di impasse, priva di esiti , e  desiderano sperimentare ulteriori gradi di autonomia, implementare la possibilità di nuove socialità, iniziando magari per la prima volta un trattamento terapeutico, ma partendo da un luogo semi-protetto (semi assistito) che riconoscendo le reali abilità e competenze possa dare maggiori garanzie di cambiamento (e contenimento delle ansie o angosce legate ai processi di cambiamento).

Persone che non hanno bisogno di un’assistenza sulle 24 ore ma solo della possibilità di  confronto e verifica, in diversi momenti della giornata, con  operatori in grado di comprendere le loro difficoltà e di supportarli in un nuovo progetto evolutivo. Operatori in grado di valutare e salvaguardare il loro status psichico e di evitare le inutili regressioni che la vita istituzionale di gruppo può comportare. Queste persone difficilmente accetterebbero l’intervento in comunità ( e in effetti o non l’hanno mai scelto, o l’hanno già sperimentato e chiedono qualcosa di diverso) poiché alcune restrizioni legate al bisogno di sicurezza e contenimento, tipiche dell’intervento comunitario, risultano  del tutto inadeguate ai loro bisogni e alle loro condizioni.

Si presume infatti che questi clienti abbiano superato le fasi sub-acute ( fasi che caratterizzano invece la richiesta di inserimento in comunità) siano relativamente in grado di stabilire relazioni di reciprocità, abbiano una relativa capacità di confronto con la realtà, ma non siano ancora in grado di sperimentare una autonomia più piena ovvero non siano ancora in grado di vivere autonomamente, di autogestirsi, di fare autonomamente progetti per il futuro.

L’intervento in una struttura a bassa protezione, consentirebbe loro di evitare il rischio di una stabilizzazione “verso il basso” ovvero una cronicizzazione che può essere nascosta dietro un relativo “compenso” ma che non consente o rende difficile la sperimentazione di gradi ulteriori di sviluppo ed autonomia. Tutto ciò senza dover ricorrere all’ ”intensività” dell’intervento in una vera e propria comunità terapeutica, ovvero a quell’insieme di interventi; gruppali ,individuali ,riabilitativi, che caratterizzano il classico intervento in una Comunità terapeutica ad alta protezione.

Si potrebbe dire addirittura dire che un intervento intensivo e assistito sulle 24 ore possa addirittura nuocere a questo tipo di clienti, perché può indurre fenomeni di dipendenza assistenziale che possono invece essere giustificati per i pazienti sub-acuti che devono invece necessariamente attraversare fasi di dipendenza per arrivare a fasi di ulteriore autonomia.

Per questi pazienti invece occorre un assoluto rispetto delle autonomie acquisite  e un attento evitamento di qualsiasi processo regressivo che risulterebbe “non utile”.

Anche nella sfera dei meccanismi di dell’appartenenza , da  parte dei residenti, credo si possa parlare di differenze sostanziali.  Presumibilmente essere ospitato in una residenza terapeutica consente all’ospite una identificazione parziale con la struttura  poiché si presume che gran parte del tempo di vita possa svolgersi nella complessa realtà del mondo sociale , dove la costruzione della  propria identità può definirsi  soprattutto sulla base delle attività effettivamente svolte, sulle multi appartenenze che egli riuscirà a creare, su relazioni libere dai vincoli istituzionali.

In un certo senso il cliente dovrà far affidamento maggiormente alle “parti sane”, alle potenzialità , e riservare le criticità della sua condizione psicopatologica ai momenti più strettamente terapeutici, come accadrebbe se egli vivesse nel suo contesto di vita ordinario, presso il proprio domicilio, e la necessità delle ordinarie funzioni per provvedere alla propria vita lo obbligasse a poter esprimere gli aspetti più patologici solo nei setting specifici della psicoterapia , del gruppo terapeutico etc (qualora lui esprima il bisogno  di questi interventi). Questi elementi che ho appena descritto definiscono maggiormente le differenze tra una Comunità e una Residenza terapeutica e tra i differenti possibili afferenti ai due tipi di strutture.

Da un lato la Comunità con la complessità del suo intervento breve e intensivo e tutto sommato ad alta protezione (non più di 24 mesi, ampia presenza di operatori sulle 24 ore , molteplicità di setting specifici, coinvolgimento diretto della famiglia nel processo di cura, milieu nell’insieme terapeutico) dove la patologia del paziente può esplicarsi pienamente, spesso per la prima volta, ed essere tollerata (la tolleranza è uno dei principi della comunità terapeutica)  per essere curata. Dall’altro le Residenze terapeutiche , dove viene richiesta al paziente una certa funzionalità, una capacità di lasciare in una fase temporanea di latenza gli eccessi fenomenici della sua patologia (e riservarli a momenti e setting più specifici) una capacità di sperimentarsi da subito nel mondo dell’organizzazione sociale  e lavorativa.

Maxwell Jones a proposito di questa possibile evoluzione della comunità terapeutica scrive:

“ L’idea dell’organizzazione sociale deve essere sufficientemente estesa da descrivere un processo dinamico composto da molteplici fattori, tra cui l’esercizio attuale della psichiatria, l’utilizzazione dell’ambiente sociale per il miglioramento del trattamento terapeutico, l’importanza della comunicazione nei due sensi, l’espressione dei sentimenti e il concetto di situazioni di apprendimento diretto da situazioni di vita-  ,tutto ciò costituisce un processo evolutivo.”  (1968 pag.54)

Quanto ha scritto M.Jones  risulta oggi quanto mai vero anche se, a 50 anni dalla sua riflessione, non sembra ancora fatto proprio, nella cultura delle comunità, il concetto che:

“Una moderna concezione della comunità terapeutica la vede infatti aperta ai continui scambi con il territorio, all’utilizzo delle sue risorse e quindi all’analisi continua dell’influenza dei fattori esterni” (De Crescente pag 146)  2012

Conclusioni

L’esperienza delle residenzialità terapeutiche a bassa protezione, nata spesso dall’esigenza di graduare le dimissioni degli ospiti dalle comunità terapeutiche può costituire un’importante opportunità nella differenziazione di interventi  per i differenti bisogni di ospiti diversi. In particolare queste esperienze ci insegnano che il minor grado di protezione consente un maggiore utilizzo della realtà sociale a fini terapeutici e un minor utilizzo dell’apporto assistenziale (che correrebbe il rischio di aumentare i fenomeni di dipendenza) per quel particolare tipo di utenza che può avvantaggiarsi di  interventi simili, costituita da ospiti che hanno già effettuato il percorso in comunità o da pazienti con risorse disponibili da investire nella realtà esterna.

Questi interventi dimostrano un migliore e più razionale utilizzo delle risorse residue degli ospiti e di quelle delle equipe curanti, e quindi risultano economicamente più sostenibili nella particolare contingenza storica.

Bibliografia

Maxwell Jones, La psichiatria nell’ambiente sociale. Il Saggiatore, 1968

Lambert Maguire , Il lavoro sociale di rete . Erickson , 1983

Marino de Crescente, recensione di “Cura psichica e Comunità terapeutica” di U.Corino,M Sassolas in Gruppi ,vol 13° gennaio-aprile 2011

Marino de Crescente, La politica delle Comunità Terapeutiche. Alpes, 2011.

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Un’archiettura solida, leggera, mobile.

“Nella mia concezione personale pensare all’istituzione tende ad assumere la forma di un’architettura: del resto la disciplina dell’architettura da sempre è stata al confine tra costruzione di strutture rigide e plasticità conformata secondo le esigenze degli esseri viventi che le usano, dalle caverne dei primitivi (…) fino alle architetture dei regimi totalitari riconoscibili come incapaci di ospitare esseri viventi, fino alle architetture che tendono a negare l’istituzione necessaria a favore di un’instabile creatività individuale (…) Renzo Piano con le sue costruzioni calate nel tessuto sociale, stabili e leggere fornisce esempi di istituzioni necessarie: solide, leggere e luminose (…) Per esempio il Beaubourg di Parigi dove le strutture che tengono in piedi l’edificio non sono celate sotto terra o coperte di intonaci, ma sono mostrate in bella vista, colorate potenti, orgogliose di provvedere a far funzionare l’insieme” (Anna Ferruta, 2016).

La comunità terapeutica è un organismo vivente, un’orchestrazione di molteplici strumenti e protagonisti (operatori, residenti, familiari, invianti, reti naturali ecc.) un’istituzione quindi ben evocata da questa immagine suggerita da Anna Ferruta, di architettura solida, ma leggera e dinamica.

In questo contributo cercherò di delineare quali sono le strutture portanti di questa architettura, mettendo in risalto l’impianto di base e le articolazioni interne che fanno funzionare l’insieme per realizzare quelle finalità cliniche, riabilitative e sociali che costituiscono la sua mission essenziale. Mi pongo al di là degli obiettivi specifici, che è importante poi declinare secondo le diverse caratteristiche delle CT: per residenti adulti o adolescenti o minori, per psicotici, o pazienti con disturbi di personalità, doppia diagnosi e tossicodipendenza, o autori di reato, per madre-bambino, per donne che hanno subito violenza ecc. sia tipologie di antica data, ma anche quelle che stanno nascendo di recente sul nostro territorio nazionale.

Si tratta di una visione generale, scaturita soprattutto dalla conoscenza delle comunità del network di “Mito&Realtà” che da alcuni anni stanno elaborando indicatori che potrebbero costituire un minimo comun denominatore per un “modello italiano” di Comunità. Pur nella diversità dei tipi di fondazione e di assetto (privato accredito o pubblico) una prima caratteristica fondamentale che le accomuna è rappresentata da una impostazione democratica con una leadership clinica e organizzativa, distinta ma in costante dialogo, uno staff che funziona da followership, che promuove e sostiene le molteplici attività con una corresponsabilità gruppale orientata all’integrazione2 e al mantenimento di un clima emotivo-affettivo sicuro e protettivo sia per i residenti che per gli operatori (Correale 1990; Obhlozer, Perini 2001, Perini 2012; Ferruta 2012). Comunità dai confini definiti, ma permeabili e aperti al costante confronto teorico-clinico con altre CT e all’inclusione nel tessuto sociale locale o più ampiamente regionale, nazionale e internazionale (Barone, Bruschetta 2015).

Per chi si avvia all’inserimento, la comunità terapeutica è un percorso di cura con un tempo e uno spazio definito, in cui poter sviluppare quella dialettica continua di tra momenti di intimità individuale e ascolto privato ed esperienze gruppali che lo pongono a confronto con l’Altro da sé (sia simbolico che reale) nelle molteplici sfaccettature dei comportamenti e delle proiezioni che si incrociano costantemente nel vivere quotidiano; quindi da un lato propone un progetto evolutivo “su misura” con un riferimento centrale personalizzato (sia esso l’operatore di riferimento o uno psicoterapeuta) volto alla coesione, all’irrobustimento del sé e all’acquisizione di capacità riflessive e dall’altro una dimensione di gruppo che possa far crescere un senso di appartenenza e responsabilizzazione, come premessa per aprirsi gradualmente alle connessioni con le reti familiari, sociali esterne alla CT. E’ su questa difficile compresenza e oscillazione tra Sé e l’Altro che si gioca gran parte dell’efficacia del trattamento, pur negli inevitabili sbilanciamenti, tra chiusure e ritiri o immersioni coinvolgenti e spesso deflagranti (Napolitani, 1987)

Inoltre con il trattamento residenziale ci troviamo immersi in una realtà molto complessa e multidimensionale che comporta un’organizzazione specifica; “Un paziente in Comunità è infatti soggetto a vari “interventi” contemporaneamente: psicofarmaci, psicoterapie individuali e gruppali, interventi riabilitativi psicosociali, interventi sulla famiglia, influenza del milieu e del corso naturale del disturbo, eventi contingenti, etc. Pertanto, in CT, bisognerebbe quantomeno parlare di “relazioni terapeutiche”, piuttosto che di “relazione terapeutica” (Maone, 2011).

In ogni caso però anche per i pazienti più gravi la qualità delle relazioni interpersonali si è rilevata come nucleo centrale (core) delle pratiche ed è associata ad esiti favorevoli attraverso un ampio range di setting e di popolazioni di pazienti; si tratta quindi di articolare questi moltepici setting, in modo flessibile, secondo le fasi del percorso terapeutico personalizzato e condiviso, utilizzando pienamente le potenzialità sia degli spazi individuali, che collettivi…

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